Solitudine e femminilità: l’arte di farsi del male o di vivere l’illimitato?

Alba mi dice: “Ero ad una mostra su Femminilità e Spiritualità…cercavo di capire…non capivo…poi ho visto una donna, guardava assorta i quadri esposti…subito mi colpisce una fitta di gelosia…no….è vera e propria  invidia…cosa ci vedrà di così importante…perché lei sì ed io no…e poi cambio rotta…dentro di me le chiedo…tu, con quale infinito hai a che fare?”

Il dialogo interiore di Alba mostra due modi di rapportarsi con l’altra donna: il primo basato sull’avere, il secondo basato sull’essere.

 “Cos’ha lei che io non ho?”

– “Cosa ha più di me?”

Ogni donna si è confrontata con questi interrogativi, almeno una volta nella vita.

Il reale interrogativo al cuore di ogni donna è “Qual è il segreto della femminilità?

Il rapporto delle donne –e degli uomini- con l’enigma della femminilità è misterioso, antico ed… irrisolvibile. Se per risolvibile intendiamo la possibilità di dare una definizione univoca e che chiarisca integralmente la questione.

Alba mostra gli apici raggiungibili dalla donna che fa i conti con la sua femminilità.

L’esperienza clinica testimonia gli innumerevoli modi attraverso i quali le donne possono farsi del male con le straordinarie potenzialità che non sanno di avere a disposizione. La mancata conoscenza del proprio essere e della propria verità, l’uso improprio dell’eccesso che le abita, viene spesso semplicisticamente definito “masochismo”. Ma non è così.

Le donne hanno a che fare con l’infinito, l’infinito è per definizione non delimitabile. E’ come trovarsi in una galassia. Dove non c’è limite, c’è angoscia, o follia. Il limite è la condizione stessa della libertà. Un fiume senza argini travolge ogni cosa. Un universo senza leggi, è caos.

Ogni donna ha il suo infinito, la sua galassia, e deve imparare a farci i conti, deve attrezzarsi per saperci fare, senza farsi del male, senza perdersi.

Tutti gli esseri umani hanno a che fare con la solitudine, il vuoto interiore, la sensazione che ci sia sempre qualcosa che manchi, un tassello per la realizzazione di se stessi  e per la felicità. Questo sentire si declina in modo differente negli uomini e nelle donne. La vita psichica del femminile è complessa, enigmatica, ricca, profonda. 

Ci si può perdere facilmente nella profondità. La solitudine femminile può assumere connotati profondi, tragici, talvolta palesi e visibili, più spesso nascosti e subdoli.

Il “maschile” e il “femminile” si caratterizzano per un diverso modo di porsi rispetto all’esistenza: il maschile si pone sul registro dell’avere, il femminile sul lato dell’essere. E’ sufficiente dire che la rappresentazione simbolica della differenza anatomica segue vie differenti nell’uomo e nella donna?

La differenza sessuale anatomica è la prima cosa che distingue il genere maschile e quello femminile. Il sesso maschile è visibile, il sesso femminile non è visibile. Ma sappiamo bene che essere uomo o essere donna non coincide con questo. Sono ben altri “attributi” che rendono uomini o donne. Nella vita psichica conta la rappresentazione simbolica di quella differenza anatomica. E la rappresentazione simbolica segue altre leggi. Il sesso femminile non è visibile, è nascosto, misterioso, sfugge all’evidenza e non è rappresentabile con un simbolo unico ed uguale per tutti. Il sesso maschile è visibile, evidente, rappresentabile.

Porsi sul lato dell’avere ha il vantaggio di offrire una insegna più stabile nella relazione con se stessi e con gli altri: il ruolo sociale, la posizione lavorativa e quella economica, possedere alcune caratteristiche di carattere ben definite ed immutabili. Fondare la propria esistenza e il proprio diritto ad essere al mondo su ciò che si ha, mostra ben presto tutti i suoi limiti. Quando hai, hai anche qualcosa da perdere.

Porsi sul lato dell’essere significa attingere dalla natura più profonda di sé stessi, vuol dire percepire l’esistenza e sentire di avere il diritto di essere al mondo indipendentemente da ciò che si ha – materiale o  immateriale -, significa nuotare in un oceano immenso senza aver paura di affogare, vuol dire attraversare un bosco godendo di ogni suo tesoro nel qui ed ora, si tratta di avere fiducia e vigore nelle proprie sensazioni ed intuizioni profonde, senza perdersi.

Sia gli uomini che le donne hanno a che fare con la solitudine propria all’essere umano, con la mancanza ad essere, ma il femminile vi ha un rapporto privilegiato, prezioso, sublime e talvolta tragico.

Quando non si riesce a sostenere il peso del legame privilegiato con l’infinito, si cerca uno scoglio, un punto fermo, qualcuno o qualcosa a cui aggrapparsi che faccia da contrappeso, da bilanciere, da argine.

Ecco che compaiono donne adagiate sulla convinzione di non valere nulla, identificate alla inconsistenza dell’essere, che si abbandonano e si lasciano andare; donne incollate alla loro immagine di mogli e madri, ma che non si sentono mai abbastanza amate, così cercano facili supplenze, sempre insufficienti, nella relazione con un altro uomo; donne realizzate sul piano del lavoro che disperdono l’energia interiore alla ricerca di emozioni forti che riempiano il vuoto interiore; donne che si illudono di colmare il vuoto sviluppando vere e proprie dipendenze (alcool, droga, sesso, cibo, affetto).

Donne che esclamano, sottovoce: “Però mi vuole bene” – “E’ tutta colpa mia” – “Ma che ho fatto di male” – “Non troverò nessun’altro”.

E poi, il sempreverde istinto della crocerossina, ovvero il prendersi cura dell’altro – più è grave, meglio è – per supplire all’incapacità di prendersi cura di se stesse, o per avere un briciolo di riconoscimento e di affetto. Tantissime donne, forse tutte almeno una volta nella vita, hanno intrapreso una relazione con un uomo sbagliato che le depriva di ogni energia. Le relazioni sono tutte complicate e con alti e bassi, ma il senso dello stare insieme deve, necessariamente, essere l’arricchimento reciproco. Non un reciproco appoggiarsi, non una gara a chi prende di più.

L’inclinazione a prendersi cura dell’altro è tipicamente femminile per natura, per cultura, per struttura: ma bisogna distinguere accuratamente il prendersi cura che viene da una donna piena della sua vitalità ed esistenza, che dona la sua pienezza senza svuotarsi, e il prendersi cura di una donna che si sente mancante, vuota, priva di valore, che si prodiga in mille accortezze per salvare un uomo disperato, o un ideale, per sentirsi riconosciuta.

Può, una donna, rapportarsi in modo sano alla propria femminilità?

Freud descrisse tre modi tipici di rapportarsi alla femminilità nelle donne: il rifiuto di questo enigma prezioso, l’identificazione maschile, la maternità.

Jacques Lacan con il celebre aforisma “La donna non esiste” attribuisce alle donne lo statuto speciale di non essere classificabili in un insieme che le possa definire in maniera univoca, cosa che invece avviene per gli uomini: la donna non esiste, ma “esistono le donne, una per una”, non definibili da una norma che valga per tutte.

Clarissa Pinkola Estes elabora e descrive l’archetipo della “Donna Selvaggia” ovvero una figura presente nell’inconscio femminile che simboleggia la natura intima della psiche femminile. Il selvaggio è inteso come qualcosa di naturale, istintivo, che non si apprende ma è già presente e chiede di essere scoperto e riconosciuto: è l’ integrità innata e con sani confini, sa cosa è giusto e cosa  è sbagliato, sa quando le cose devono morire e quando devono vivere, sa come allontanarsi e sa come restare.

Il compito essenziale di ogni donna è quello di imparare a fare i conti con la propria femminilità: non esiste un segreto, una formula che vada bene per tutte, ogni donna deve fare il suo percorso ed imparare a fare i conti con il proprio infinito. Se ci riesce, l’infinito dell’altra donna non è da invidiare, ma da scoprire e confrontare. Non deve temere la solitudine, ma abitarla ed interrogarla, ascoltare il proprio intuito, la voce interiore, che dice sempre la verità. L’intuito, non l’impulsività, che è ben diversa, e spinge a trovare facili soluzioni che complicano anziché risolvere.

E’ un percorso non lineare, ma fatto di cicli, di cadute e di riprese, di fasi di vitalità intensa, e momenti di raccoglimento e silenzio.

Quale strada seguire? Ognuna ha la sua via. E’ più faticoso, ma garantisce il raggiungimento della propria unicità, particolarità, irripetibilità. Seguire gli indizi, ascoltarsi, riappropriarsi del proprio corpo, con le sue ricchezze ed i suoi limiti, acquistare, conservare e difendere la propria consapevolezza ogni istante della propria vita, non delegare, imparare a conoscere e fidarsi delle proprie sensazioni, scoprire a cosa si appartiene, conoscere creare e seguire il proprio desiderio.

Ascoltare ed interrogare sogni, canzoni, storie, segni, simboli, relazioni, parole. Aprire occhi, orecchie e intuito. Saper abitare ed amare le domande. Interrogare l’attesa. Sostare nell’attesa. Non confondere il pensiero razionale con l’intuito profondo della verità.

Il dialogo ed i legami sociali permettono di giungere in luoghi interiori dove una riflessione solitaria non saprebbe arrivare. 

Qualche lettura a proposito

  • S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925), in Scritti sulla sessualità femminile, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1976, ristampa 2000
  • S. Freud, Sessualità femminile, (1931) in Scritti sulla sessualità femminile, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1976, ristampa 2000 
  • S. Freud, La femminilità, (1931) in Scritti sulla sessualità femminile, in Scritti sulla sessualità femminile, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1976, ristampa 2000
  • J. Lacan. Una lettera d’almore – Seminario XX Ancora, Einaudi Torino 1973 
  • J. Lacan, Appunti direttivi per un Congresso sulla sessualità femminile in Scritti vol.2, Einaudi Torino 1966
  • Clarissa Pinkola Estes, Donne che corrono coi lupi, Il mito della Donna Selvaggia, Edizioni Frassinelli 1993

Ed uno scritto davvero esplicativo: Il complesso di Didone, ovvero perché le donne toste perdono la testa per gli Enea

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